di Cristina Morrozzi
Vuol dire trasformare lo spirito soggettivo (l’intenzionalità progettuale) in spirito oggettivo (la cosità dell’oggetto). L’oggetto diventa cosa leggibile se gli viene assegnato un posto che faciliti la trasmissione dei suoi valori simbolici. La sfida è “apparecchiare” le cose in modo che si animino, come accade nella fiaba di Hans Christian Andersen, Il tenace soldatino di stagno; vitalizzare l’inorganico per restituirgli quanto il prevalere dei valori d’uso e di scambio gli aveva tolto. Si tratta di accentuare la capacità delle cose di emanare da sé i propri significati, di renderle cassa di risonanza delle idee che hanno ispirato il loro progetto e plasmato la loro estetica. Perciò più che parlare delle cose in sé e per sé, vorrei raccontare le riflessioni per arrivare a trovare “ il loro posto” nell’esposizione.
Assegnare a ogni progetto “il proprio posto” nel contesto di uno spazio espositivo, di un luogo neutro, privo di stratificazioni di senso, vuol dire rendere ciascuno narrante: storie di senso e d’emozione, storie di funzione e relazione, ma anche di processo, d’ideazione e di sorgenti d’ispirazione. Per dare voce alle cose bisogna leggerle, sia con l’amorevole partecipazione di chi (il designer) le ha create e accompagnate con cura nel loro farsi, ma anche con il distacco di chi (il curatore), senza conoscerne intimamente storia e ragion d’essere, cerca di decodificarne linguaggio.
La sezione di un’arancia o del baccello di un pisello”, scrivono nella loro filosofia di design, “hanno entrambe una geometria che esaminata attentamente risulta disarmante. L’incontro tra organicismo formale e complessità funzionale avviene in natura in modo spontaneo ma perfetto senza ridondanza, né rigidità estetica, verso una pura economia della forma. Quando progettiamo questa è la nostra ambizione”.[..] Poco altro c’è da aggiungere, se non a livello sensibile e preverbale: una delicata sensorialità delle forme, una rinnovata idea di grazia che si accompagna a funzioni efficienti e innovative. Per descrivere come funziona il loro asciugacapelli, diverso da tutti gli altri, non per caso, Raffaella mima i gesti della phonista, spiega come va trattata la cheratina del capello, lo posa dritto, evidenziando la sua stabilità… Della lampada da terra Dandelion, simile all’omonimo fiore della specie dei Taraxacum, sottolinea il suo oscillare, quasi fosse mossa da una lieve brezza… Per spiegare Pulse, l’innovativa lavabiancheria studiata per Whirlpool, Matteo parla di contrazioni uterine…Progettano Raffaella e Matteo per il mondo reale, come invitava a fare già 35 anni fa Viktor Papanek.
Disegnano strumenti servizievoli (lavatrici, asciugacapelli, aspirapolvere…) per il quotidiano, ma riescono a creare eleganza, una qualità indicibile, sempre più rara, che emana dagli oggetti come una irradiazione pervasiva, intangibile, ma percettibile. Le loro forme, come quelle dell’arancia e del pisello, sono concise, prive di qualsiasi ridondanza, asciugate, eppure morbide, aggraziate, appunto.
…quello stato di mezzo sorprendente nel quale si è come sospesi” (in Raffaele Milani, I volti della grazia, Mulino, Bologna 2009) E che sia opportuno ricostruire l’aura e “l’allure” dell’eleganza. Perciò ritiene necessario impaginarle come un poema: parole come epigrafi, isolate in un paesaggio lieve ed armonico[…]
un vuoto candido, a tratti animato da immagini fluttuanti e sfumate, che illustrano le funzioni.
Poi fruscii, odori (Raffaella ha progettato per San Lorenzo “Bloom”, un collier odoroso), e musica da camera (tra i progetti c’è “Flat piano”, un nuovo ibrido, un tavolo/pianoforte), evocativa del decoro borghese, uno stile d’abitare che ha a che vedere con l’eleganza e la grazia. E niente altro. Il minimo. In mostra solo le cose definite e narrate da sensazioni sonore e olfattive, da ombre sfuggenti. I designer (Raffealla e Matteo) vogliono un racconto più dettagliato per descrivere una fase progettuale che, partendo dall’analisi di elementi concreti, si esplica attraverso un disegnare classico, alla Magistretti. Temono un’eccessiva smaterializzazione e intendono sottolineare una certa “antica materialità” del loro progettare, mediante tavole descrittive, disegni… Sarà la mostra, nella sua definitiva configurazione, a suggerire la tonalità testuale[…]
La voce delle cose equivale all’happy end. Il finale a effetto cela la complessità della trama, come se la fatica del tenere assieme le ragioni del fare si risolvesse per incanto nella compiutezza di un risultato finale. Anzi, è proprio la “compiutezza” a escludere dal “racconto delle cose” il percorso faticoso della genesi[…]
È dalla crescita graduale e armonica che nascono eleganza e grazia, mai declamate, anzi sussurrate con la pudica discrezione che si produce nell’incontro di due sensibilità, una maschile e l’altra femminile, disvelate nella loro espressione migliore. La fiducia nella bontà del processo determina anche la creazione di prodotti privi di committente, portati a termine nella convinzione che seguire il farsi delle cose con passione conduca sempre a risultati di qualità, valevoli in sé, e non perché funzionali a un briefing dato.
Per loro progettare significa interrogarsi sull’essenza del prodotto, riandando alle sue origini e alla sua ragion d’essere. Vuol dire guardare le cose come sono e pensare come potrebbero essere. L’innovazione non è mai tecnicistica, macchinosa, ma dolce, perché riguarda l’uomo, la sua esperienza e le sue radici culturali. In questo nuovo umanesimo c’è la purezza di un pensiero idealista che crede nel divenire, pur tenendo saldi i valori della tradizione.
Testo di Cristina Morozzi
La mostra è una selezione del lavoro di deepdesign, il cui percorso è guidato da un’intensa attività di ricerca sulle forme, le tecnologie e i materiali nuovi, che spesso tende ad una radicale rivisitazione delle tipologie.
LOCATION: Triennale Design Museum
DATE: 2008
DARE VOCE ALLE COSE
Cristina Morozzi
FIGLI DEL PENSIERO “MODERNO”
Silvana Annicchiarico